LA VESTE DELLA SPOSA
1. LA SPOSA
Chiesa! Questa parola, così comune da noi, pescata dal linguaggio corrente di duemila anni fa quando
ecclesìa
significava semplicemente un radunarsi di persone, fu subito usata per
indicare le comunità dei cristiani che si radunavano nelle case di
qualcuno di loro per celebrare il mistero della Pasqua del Signore. Col
tempo, la parola passò a indicare anche i nuovi edifici, realizzati per
ospitare queste riunioni sempre più numerose.
La storia ci ha
consegnato così questa singolarità di linguaggio (in italiano come
nelle principali lingue europee): una stessa parola –chiesa– che indica
due realtà così diverse tra loro, la comunità e l’edificio che la
ospita. Edificio che dunque non è un qualunque contenitore di essa, ma
ne è anche il segno. Da allora
le chiese sono state anch’esse, come
la Chiesa, annunciatrici della grande Presenza in ogni luogo e in ogni tempo. Tutti i nostri territori sono segnati dalla loro presenza.
Se
la Chiesa è la Sposa, scelta e amata dal Signore Gesù fino a dare la
vita per essa, possiamo quasi dire che le chiese sono le vesti della
Sposa. E si comprende come si sia sempre cercato di renderle dei veri
tesori di bellezza e di verità.
La piccola storia della chiesa
parrocchiale di Santa Teresa vive nel solco di questa grande storia.
Nel nostro caso la Sposa ha avuto, finora, due vesti successive: la
prima modesta chiesetta (ora trasformata in prezioso salone
parrocchiale) e la grande chiesa attuale.
2. LA PRIMA CHIESETTA
Consultando
l’archivio delle pratiche edilizie comunali del 1963, con sorpresa si
scopre un voluminoso incartamento contenente non uno ma ben quattro
progetti diversi, presentati dalla parrocchia della Madonna Pellegrina
a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro (tutti a firma dell’ingegnere
Vaccari), dei quali uno solo infine realizzato.
Il primo (dell’8
gennaio 1963) ubicava lungo la via Pavia, proprio dove ora sorge la
nuova chiesa (l’innesto di via Milano non era ancora stato tracciato),
una chiesetta con alcuni locali annessi: la sacrestia, un ufficio e un
alloggio minimo.
Il progetto era ancora in corso di esame quando
ne fu presentato un secondo (del 7 marzo 1963) che prevedeva, nella
stessa posizione, solo una chiesetta (diversa dalla precedente), ma
senza precisare se andava a sostituire il primo progetto, che quindi fu
archiviato d’ufficio. Il 27 marzo questo secondo progetto non fu
approvato “per la soluzione architettonica non adeguata all’importanza
del tema” (evidentemente in Comune avevano un’idea di come dovesse
essere una chiesa!).
Il terzo progetto (dell’1 aprile 1963)
prevedeva, sempre in quella posizione, una terza chiesetta. Fu
approvato il 16 aprile, alla condizione di situare l’edificio non lungo
la via Pavia ma di fronte alla nuova via Como appena tracciata, lungo
il tratto di via Milano anch’esso appena tracciato, e a distanza di
almeno 15 m da questo (evidentemente in Comune avevano un’idea che
davanti a una chiesa dovesse esserci un sagrato!).
E questa si
cominciò a costruire (all’interno era previsto uno spazio per la
custodia eucaristica a fianco dell’ingresso, che non fu realizzato). La
costruzione sorse in asse con via Como, ma senza rispettare la
prescrizione della distanza da via Milano. Il 30 settembre, a
costruzione quasi ultimata, fu notificato un verbale di contravvenzione
per abuso edilizio, aprendo una querelle che si trascinerà nel tempo
concludendosi con una multa e una sanatoria alla fine del 1967 (nel
frattempo era nata la nuova parrocchia).
Un quarto progetto (del
9 dicembre 1965) prevedeva di prolungare la chiesetta esistente nella
parte posteriore per creare presbiterio e sacrestia e aggiungere ai
lati le due ali di un transetto, in modo da avere una pianta a forma di
croce latina. Erano previsti anche due piccoli edifici laterali,
collegati alla chiesa da due portici e destinati rispettivamente
all’abitazione del parroco e a sede parrocchiale. Ne accenna il testo
“A futura memoria” del 2013, nel quale don Dorval ricorda che,
nonostante l’insistenza di qualcuno per realizzarlo, non lo si fece per
non sacrificare il campo sportivo né l’area (alla quale evidentemente
già pensava) per la futura chiesa, e così la pratica fu abbandonata
(del resto le priorità erano altre: recintare il terreno, piantare
alberature e siepi, attrezzare il campo sportivo… per non parlare della
vita della comunità, tutta da costruire e da alimentare).
Si prospetta dunque una storia edilizia fin dall’inizio piuttosto avventurosa.
Ed
ecco dunque la cara, modesta chiesetta che per un quarto di secolo sarà
il centro della nuova parrocchia. Semplice, spartana. Sul campaniletto
in cemento, una nuda croce in tubolare di ferro e una piccola campana
in Sol diesis (fusa nel 1816 da Riatti di Reggio Emilia) proveniente
dalla chiesa di Santa Filomena di Nonantola (e che nessuno ricorda dove
sia finita dopo il 1992). Sotto, un roseto, tre tuie, una piccola
aiuola con una siepe.
All’interno, un altare in legno con un
paliotto in terracotta a bassorilievo raffigurante l’Ultima cena, opera
originale di Enrico Zacchi ispirata alla scena centrale del pontile del
Duomo; alla parete un grande Crocifisso in terracotta a tutto tondo,
opera dello stesso artista; sotto, un piccolo tabernacolo su una
mensola; attorno all’altare, semplici ma originali sedili e tavolini
progettati da Marco Fontana. Negli angoli, due statue lignee di Ortisei
raffiguranti Maria e Teresina.
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